Utente:Postmaster/sandbox: differenze tra le versioni

Da WikiFoligno.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Nessun oggetto della modifica
Riga 27: Riga 27:
I Salimbeni erano una delle più ricche, aristocratiche e potenti famiglie di Siena, spesso in aperto contrasto con altre famiglie nobili, in particolare quella dei Tolomei. Tra le due famiglie infatti vigeva una faida secolare in cui, alternativamente, furono vincitori o vinti, con grave danno per l’intera cittadinanza, poiché negli eccidi venivano coinvolti i rispettivi sodali: case atterrate, incendi, condanne all’esilio o a morte, che hanno segnato la storia delle due famiglie e la storia di Siena. Per questo motivo, Bianchina e i figli preferirono stabilirsi, piuttosto che in uno dei palazzi posseduti nella città di Siena, nela Rocca di Tentennano, una monolitica arce, a guardia della via Francigena, importante nodo viario medievale che congiungeva Roma con l’Italia settentrionale e la Francia: chiunque andasse o tornasse da Roma, capitale della cristianità, doveva necessariamente passare sotto l’arcigna e inespugnabile Rocca.<br>
I Salimbeni erano una delle più ricche, aristocratiche e potenti famiglie di Siena, spesso in aperto contrasto con altre famiglie nobili, in particolare quella dei Tolomei. Tra le due famiglie infatti vigeva una faida secolare in cui, alternativamente, furono vincitori o vinti, con grave danno per l’intera cittadinanza, poiché negli eccidi venivano coinvolti i rispettivi sodali: case atterrate, incendi, condanne all’esilio o a morte, che hanno segnato la storia delle due famiglie e la storia di Siena. Per questo motivo, Bianchina e i figli preferirono stabilirsi, piuttosto che in uno dei palazzi posseduti nella città di Siena, nela Rocca di Tentennano, una monolitica arce, a guardia della via Francigena, importante nodo viario medievale che congiungeva Roma con l’Italia settentrionale e la Francia: chiunque andasse o tornasse da Roma, capitale della cristianità, doveva necessariamente passare sotto l’arcigna e inespugnabile Rocca.<br>
Le faide spiegano la presenza di Caterina, che vi giunse per la prima volta, accompagnata da Raimondo da Capua, nel 1377, accolta con venerazione dalla contessa Bianchina e dal figlio Agnolino (scopo, poi raggiunto, era riconciliare Agnolino con Cione Salimbeni).
Le faide spiegano la presenza di Caterina, che vi giunse per la prima volta, accompagnata da Raimondo da Capua, nel 1377, accolta con venerazione dalla contessa Bianchina e dal figlio Agnolino (scopo, poi raggiunto, era riconciliare Agnolino con Cione Salimbeni).
<br>
<br>


[[Categoria:I Trinci]]


== Il "miracolo del cinabro" ==
== Il "miracolo del cinabro" ==

Versione delle 22:59, 18 ott 2021

Stemma della famiglia Salimbeni

Bianchina Trinci, figlia di Ugolino II Trinci e Vittoria da Montemarte, sorella di Trincia e Corrado II, sposata con Giovanni Bottone Salimbeni di Siena, ebbe un'intima amicizia con Caterina di Jacopo di Benincasa, la futura Santa Caterina da Siena.
Alcuni storici e studiosi hanno avanzato l'ipotesi, in realtà piuttosto concreta, che a insegnare a scrivere a Caterina, in età adulta, sia stata proprio Bianchina Trinci.

Santa Caterina da Siena

Caterina di Jacopo di Benincasa, conosciuta come Caterina da Siena (Siena, 25 marzo 1347 – Roma, 29 aprile 1380), è stata una religiosa, teologa, filosofa e mistica italiana. Venerata come santa, fu canonizzata da Pio II nel 1461; nel 1970 è stata dichiarata dottore della Chiesa da Paolo VI. È patrona d'Italia insieme a san Francesco d'Assisi e compatrona d'Europa.
Nel 1363 entrò nell'ordine delle Terziarie domenicane, note a Siena con il nome di "Mantellate". Caterina, che non sapeva né leggere né scrivere, chiese a una consorella più istruita di insegnarle quel tanto che bastava, ma non ne ricavò nulla.
Nell'ottobre del 1370 i fratelli della santa si trasferirono a Firenze e, dopo alcuni mesi di residenza, chiesero di ottenere la cittadinanza fiorentina. In pratica la famiglia di Jacopo e Lapa si sfaldò, ma Lapa decise di restare con Caterina. Da allora Caterina iniziò a essere accompagnata dalla “Bella brigata”, un gruppo di uomini e donne che la seguivano, la sorvegliavano nelle sue lunghe estasi, l'aiutavano in ogni modo nelle attività caritative e anche nella corrispondenza che gente di ogni parte intratteneva con lei.
Caterina da Siena iniziò un'attività di corrispondenza, avvalendosi di membri della brigata a cui dettava le sue lettere. Ne scrisse circa 300, durante gli ultimi dieci anni (1370-1380) della sua vita. Questo ricco epistolario affrontava problemi e temi sia di vita religiosa che di vita sociale di ogni classe, e anche problemi morali e politici che interessavano tutta la Chiesa, l'impero, i regni e gli Stati dell'Europa trecentesca. Caterina scrisse anche a personalità importanti dell'epoca. Su questi interessi qualcuno esprimeva giudizi critici, per questo Caterina dovette presentarsi al Capitolo dell'Ordine Domenicano, che si tenne a Firenze nel 1374. C'era chi accusava Caterina di tendenza a un protagonismo fuori degli schemi tradizionali, che non competevano certo a una donna, per di più popolana e non colta. Al Capitolo non fu trovata in Caterina nessuna colpa ma, riconoscendo la singolarità del suo caso, i Padri preferirono prendere una decisione eccezionale: le assegnarono un confessore personale, il quale fosse sua guida e garante del suo spirito domenicano; a questo compito fu assegnato fra Raimondo da Capua.
Rientrata a Siena da Firenze, Caterina fu impegnata ad assistere gli ammalati, colpiti da una delle frequenti epidemie di quel tempo. Intanto due dei suoi precedenti discepoli e confessori, trasferiti a Pisa, diffusero in quella città la sua fama tanto che Piero Gambacorti, il signore di quella città, invitò Caterina a Pisa. Caterina accettò quell'invito e vi si recò nei primi mesi del 1375. Secondo la tradizione qui, nella domenica delle Palme, nella chiesa di Santa Cristina, davanti a un crocifisso oggi nel santuario Cateriniano, Caterina ricevette le stigmate, che però su richiesta della santa rimasero a tutti invisibili.

Caterina fu oggetto di fenomeni mistici caratterizzati da visioni. Secondo i racconti del suo confessore, già all'età di sei anni ella si sarebbe rifugiata in un eremo per soddisfare il suo desiderio di consacrarsi. Durante una notte di carnevale del 1367 le apparve Cristo accompagnato dalla Vergine e da una folla di santi, e le donò un anello visibile solo a lei, sposandola misticamente. Dopo essere stata accolta dalle Mantellate, frequenti furono le sue estasi presso la chiesa del convento dedicata a san Domenico. Qui stava ritirata in preghiera e qui aveva frequenti colloqui familiari con Gesù Cristo, suo mistico sposo. Sono annoverate frequenti estasi da lei avute mentre rimaneva appoggiata a un pilastro ottagonale della chiesa.
Secondo la tradizione, durante gli ultimi giorni della sua vita ci furono continue visite dei figli spirituali e a ciascuno di essi, dopo le comuni raccomandazioni, lei comunicava ciò che dovevano fare successivamente nella vita. La mattina della domenica dopo l'Ascensione, il 29 aprile 1380, prima dell'alba, fu notato in lei un grande mutamento, che fece pensare all'avvicinarsi della sua ultima ora. Il suo respiro diventò così fievole che fu deciso di darle l'Unzione degli infermi. Durante le sue ultime ore più volte chiamò "Sangue! Sangue!". E infine disse: "Padre, nelle tue mani raccomando l'anima e lo spirito mio". Spirò quella domenica 29 aprile del 1380, poco prima di mezzogiorno.
Caterina ha lasciato un epistolario di 381 lettere, una raccolta di 26 preghiere e il "Dialogo della Divina Provvidenza". Molte delle opere di Caterina sono state dettate, anche se Caterina divenne capace di scrivere e scrisse alcune lettere di suo pugno.
Alla morte di Caterina i suoi discepoli raccolsero le sue lettere. Il teologo Tommaso Caffarini, incaricato delle trattative per la canonizzazione di Caterina, fu autore della raccolta considerata ufficiale. Le Lettere riscossero fin da subito un enorme successo. L'editio princeps, curata da Bartolomeo Alzano, fu data alle stampe da Aldo Manuzio a Venezia nel 1500. La raccolta, comprendente 353 lettere, fu più volte ristampata nel corso del '500. Nell'edizione del 1860 Niccolò Tommaseo tentò di restituire alle Lettere l'ordine cronologico e le corredò di un apparato di note molto apprezzato dagli studiosi sia dal punto di vista storico che sotto il profilo linguistico-letterario.

Da Bianchina Trinci alla Rocca di Tentennano

Bianchina Trinci sposò Giovanni Bottone di Agnolino Salimbeni, nobilissima famiglia senese, ed ebbe tre figli: Angelo, che fu Podestà in varie città dìItalia, tra cui anche Foligno (1381), Isa, sposa di un non meglio precisato Paolo Trinci, e Benedetta, due volte sposa e due volte vedova.
Giovanni Bottone morì nel 1367, a seguito di un incidente, in cui rimase schiacciato dal peso del proprio cavallo, mentre tornava da Siena a Rocca Salimbeni.
La lettera n° 111 di Santa Caterina era indirizzata proprio "A monna Biancina donna che fu di Giovanni d’Agnolino Salimbeni". Nell'introduzione Caterina si accalora nel sostenere che noi non dobbiamo far dipendere la nostra vita, fisica, ancor più spirituale, dal senso di possesso dei beni e degli affetti terreni; poi si rivolge direttamente a Bianchina con un tono di forte esortazione, convincendola ad abbandonarsi a Dio, ai suoi disegni: egli è sommo in tutto:

“Adunque non voglio che dormiamo più, carissima madre, ma destianci dal sonno; che il tempo nostro s’approssima verso la morte continuamente. Le cose temporali e transitorie, e le creature, voglio che teniate per uso, amandole e tenendole come cose prestate a noi, e non come cose vostre. Questo farete traendone l’affetto; altrimenti, no.Trarre se ne conviene, se vogliamo participare al frutto del sangue di Cristo crocifisso. Considerando me, che altra via non ci è, dissi che io desideravo di vedere il cuore e l’affetto vostro spogliato del mondo; e a questo mi pare che Dio vi inviti continovamente”

Le parole e le lettere, quattro alle donne Salimbeni, confermano una pratica assidua di ospitalità e di intimità con la famiglia di madonna Bianchina Trinci, tanto che il “miracolo” del dono del saper scrivere avvenne proprio mentre Caterina si trovava (1377) alla Rocca del Tentennano, oggi Rocca d’Orcia, ospite di Bianchina.
I Salimbeni erano una delle più ricche, aristocratiche e potenti famiglie di Siena, spesso in aperto contrasto con altre famiglie nobili, in particolare quella dei Tolomei. Tra le due famiglie infatti vigeva una faida secolare in cui, alternativamente, furono vincitori o vinti, con grave danno per l’intera cittadinanza, poiché negli eccidi venivano coinvolti i rispettivi sodali: case atterrate, incendi, condanne all’esilio o a morte, che hanno segnato la storia delle due famiglie e la storia di Siena. Per questo motivo, Bianchina e i figli preferirono stabilirsi, piuttosto che in uno dei palazzi posseduti nella città di Siena, nela Rocca di Tentennano, una monolitica arce, a guardia della via Francigena, importante nodo viario medievale che congiungeva Roma con l’Italia settentrionale e la Francia: chiunque andasse o tornasse da Roma, capitale della cristianità, doveva necessariamente passare sotto l’arcigna e inespugnabile Rocca.
Le faide spiegano la presenza di Caterina, che vi giunse per la prima volta, accompagnata da Raimondo da Capua, nel 1377, accolta con venerazione dalla contessa Bianchina e dal figlio Agnolino (scopo, poi raggiunto, era riconciliare Agnolino con Cione Salimbeni).

Il "miracolo del cinabro"

Alla partenza di Raimondo, Caterina all’improvviso imparò a scrivere, tanto che scrisse al suo confessore (non più dettandola ai segretari) una lunghissima epistola, dove a conclusione narra l’incredibile vicenda:

“Questa lettera, e un’altra ch’io vi mandai, ho scritte di mia mano in su l’Isola della Rocca, con molti sospiri e abondanzia di lacrime; in tanto che l’occhio, vedendo, non vedeva; ma piena di ammirazione ero di me medesima, e della bontà di Dio, considerando la sua misericordia verso le creature che hanno in loro ragione, e la sua Providentia; la quale abondava verso di me, che per refrigerio, essendo privata della consolazione, la quale per mia ignoranza io non cognobbi, m’aveva dato, e proveduto con darmi l’attitudine dello scrivere, acciocché discendendo dall’altezza, avessi un poco con chi sfogare ‘l cuore, perché non scoppiasse. Non volendomi trarre ancora di questa tenebrosa vita, per ammirabile modo me la fermò nella mente mia, siccome fa il maestro al fanciullo, che gli dà lo esemplo. Onde, subito che fuste partito da me col glorioso evangelista Joanni e Tommaso di Aquino, così dormendo cominciai a imparare. Perdonatemi del troppo scrivere, perocché le mani e la lingua s’accordano col cuore”.

La realtà storica nei fatti è che Caterina, ospite di Bianchina, acquisì la tecnica scrittoria, ma l’episodio venne qualificato da alcuni biografi come un “miracolo”: la santa, presa da divina ispirazione, avrebbe intinto la penna in un vasetto colmo di cinabro[1] liquido e, su di una pergamena, tracciando segni nitidi, dotati di senso, scrisse una poetica preghiera di lode a Dio.
All’età di trenta anni, quindi, Caterina apprese la tecnica che le permise di raggiungere gli obiettivi perseguiti: espandere la luce della conoscenza spirituale, portare la pace tra i popoli, tra le nazioni, tra le istituzioni, far penetrare fin nelle più profonde pieghe dell’animo umano il difficile concetto della Carità, non solo e semplicemente cristiana, la carità è la virtù che ci permette di amare allo stato puro qualsiasi cosa creata, proprio perché tale.
La lunga permanenza (dall’estate fino a dicembre del 1377) di Caterina e del suo seguito presso la Rocca di Tentennano, diede adito al sospetto di un complotto che la consorteria dei Salimbeni, con a capo Agnolino, figlio di Giovanni e di Bianchina, avrebbe programmato contro la repubblica senese per insignorirsi della città. Caterina rispose con missive di fuoco, il fuoco dello sdegno, il fuoco dell’indignazione di chi, innocente, viene vilmente calunniato per i propri meschini interessi.


Santa Caterina a Giacoma Trinci

L’epistola che santa Caterina inviò a Giacoma d’Este, moglie di Trincia, madre di Ugolino, riguarda uno degli episodi più tragici della storia di questa famiglia: l’uccisione del Signore folignate (28 settembre 1377) ad opera di una fazione ghibellina che ambiva a prendere il potere, salvo essere cacciata via dai cittadini inferociti per la tirannica condotta, appena due mesi dopo l’efferato omicidio. Caterina scrisse a Giacoma una lettera (la n° 264) molto bella, molto sentita, la sua lunghezza ne è testimonianza (nell’edizione del 1987 curata da Umberto Meattini occupa più di sette pagine). La santa esprime concetti che già conosciamo essendo questi i pilastri su cui si basa il suo pensiero mistico: la volatilità di ogni cosa umana, la tensione verso l’infinito, ovvero Dio, il Tutto, senza inizio né fine, che appaga le nostre fragilità.
Per Giacoma, oltre al dolore della perdita, situazione simile in Italia per tutte le nobildonne cadute in disgrazia si aggiungevano i timori per quello che sarebbe stato il destino dei familiari: esilio o eliminazione fisica degli uomini della famiglia, private dei beni, violate o costrette a sposare i vincitori le donne. Caterina volle consolare la moglie e le figlie e le sorelle di Trincia Trinci, in particolare Bianchina. Maggior consolazione Giacoma, consorte distrutta dal dolore, ebbe da Caterina, quando lei mise in rilievo come il potente signore fosse morto in qualità di difensore della santa madre Chiesa, essendosi più volte rifiutanto di aderire alla lega antipapale promossa da Firenze e da Perugia.


Il testamento di Agnolino Salimbeni

Agnolino, conte di Tentennano e Montenero, signore di Bagno Vignone, della Ripa, di Montegiovi e di Sasso, il 28 giugno 1400, nel suo palazzo in Cortona, alla presenza di cinque testimoni, dettò le sue ultime volontà al notaio Giovanni di Fredi da Castrobono, premettendo che, dovendosi recare in Lombardia a visitare il principe Giovanni Galeazzo Visconti, duca di Milano, temeva di morire di peste durante il viaggio, pertanto ordinava che i suoi castelli della Rocca di Tentennano, della Ripa d’Orcia, di Vignone, di Montenero, di Montegiovi e di Sasso, con le giurisdizioni, vassalli, servizi e quant’altro, fossero assegnati al Magnifico Messer Ugolino di Trincia dei Trinci, signore di Foligno, suo fratello consobrino[2].
Ordinava a tutti i suoi castellani, vicari e ufficiali che immettessero Ugolino nel legittimo possesso di tutti i suoi feudi e che lo considerassero vero e unico padrone, dal quale dovevano dipendere interamente, anche nel caso in cui Ugolino fosse ignaro di tali disposizioni testamentarie. L’ultima nota rende palese la massima fiducia che Agnolino doveva nutrire per il cugino, il quale, una volta erede, avrebbe potuto appropriarsi, rimanendo nella legalità, dell’immenso patrimonio che Agnolino metteva nelle sue mani. Agnolino morì effettivamente durante il viaggio nel Milanese e la sua preoccupazione era stata quella di non dissolvere l’eredità distribuendola tra le figlie, potenzialmente deboli a fronte di mariti potenzialmente avidi. Infatti il testamento termina con l’accorata richiesta a Ugolino, fratello carissimo, di proteggere la moglie Agnese, le figlie Antonia, Marietta e Ludovica, così la madre (nonché zia del signore folignate) Bianchina, pregandolo di averne cura amorevole. Ugolino, stimato come persona autorevole e di indiscussa lealtà, sarebbe stato l’esecutore testamentario dei beni, così da evitare eventuali contenziosi da parte di pretendenti non idonei, quali altri rami dei Salimbeni o lo stesso Comune di Siena.

  1. Il cinabro è un pigmento rosso di origine minerale che può essere sia naturale che sintetico. Se puro, ossia naturale, è altamente tossico.
  2. Cugino da parte di madre.